Il canto dell'orco

Siamo a Roma nel 1970. Luca Simoni è un promettente cronista. Si occupa di nera, la cronaca dove tutto diventa “più chiaro e terribile, il centro incandescente del nostro malessere”. E’ apprezzato nell’ambiente della malavita perché cerca di capire anziché giudicare. Una notte lo chiama Martino Mozzati, noto come “il boia di Cavalta”: ha collaborato con i tedeschi dal 1943 e partecipato a una rappresaglia contro i partigiani. Martino al telefono è insistente e costringe il giornalista a raggiungerlo a Ostia. Lì, in una villetta, racconta a Luca la sua vita, ma soprattutto il suo amore per Francesca che ne ha rappresentato la costante benché poi le circostanze li abbiano separati. Poi, all’alba, nella stanza accanto, gli mostra Francesca: è morta già da due mesi, ma lui non riesce a staccarsene, l’ha circondata di fiori e ceri, la tratta come una santa. Ma giura la sua innocenza; Francesca, dice, si è uccisa con due colpi di pistola al petto annientata dalla depressione. Luca gli crede. Sa di trovarsi di fronte a un uomo spregevole, che sulla coscienza ha crimini terribili, ma quel delitto non l’ha commesso. Mentre la polizia dà la caccia a Mozzati, Luca Simoni pubblica una serie di articoli accreditando la tesi del suicidio della donna; poi accoglie il latitante in casa sua, accetta di scriverne la storia. Intanto indaga su quel passato oscuro ritrovando gli altri coinvolti nell’eccidio del 1944. La vicenda diventa per lui un’ossessione: i colleghi lo abbandonano, la polizia lo mette in guardia, qualcuno lo pedina ma ormai il giornalista è come avvolto nel gorgo che lo trascina sempre più a fondo mentre Martino scivola nella follia fino al compimento del suo destino.